Buona e Mite

15.10.2025
Capii che era buona e mite. Le persone buone e miti non resistono mai per molto tempo.                                                   La Mite, FEDOR DOSTOEVSKIJ

Tutto è già accaduto. La stanza è in silenzio, il corpo della Mite giace sul tavolo, l'uomo che la guarda, suo marito, continua a parlare dentro di sé. Parla perché non può smettere, perché solo la parola gli resta come un'illusione di presenza, un modo disperato per tenere accesa la vita. Finché lei giace qui - va tutto ancora bene: posso andare da lei a guardarla ogni istante; ma domani che la porteranno via, come farò io a rimanere solo? È un interrogativo sospeso tra la veglia e il delirio. Parla per colmare il vuoto, ma ogni parola lo tradisce: più racconta, più si allontana dalla verità. La Mite, che non ha più la sua voce, diventa specchio muto della sua coscienza, la sua assenza è la presenza più assoluta.

Il racconto si apre così, come se la narrazione fosse un ritorno sul luogo del delitto, e volendo ben vedere, di questo si tratta. Il marito tenta di ricostruire ciò che è accaduto, di giustificarsi come se davanti a lui ci fosse una giuria giudicante. Ma al lettore è subito chiaro che qualcosa stride. Ogni episodio è filtrato dalla sua voce, ogni gesto della moglie è interpretato dall'uomo e di conseguenza deformato. Pagina dopo pagina, Dostoevskij costruisce una delle più potenti figure di narratore inaffidabile della modernità. Un uomo che parla con convinzione assoluta, e che proprio per questo rivela, parola per parola, la propria cecità. Egli crede di raccontare la verità, ma sta solo scavando più a fondo nella propria illusione. Il lettore lo ascolta, ne condivide l'angoscia, ma al tempo stesso percepisce che qualcosa sfugge, che la realtà della Mite non coincide mai con quella che ci viene narrata.

Cieca, cieca! È morta, non sente! Non sai che paradiso ti avrei ritagliato. Avevo il paradiso nell'anima, te ne avrei circondato!

La Mite appare come una figura trasparente e indecifrabile. È buona e mite, ma la sua mitezza non è debolezza. È la forza calma di chi resiste senza gridare, di chi sopporta ma non si piega. E proprio questa silenziosa fermezza spaventa il marito, abituato a possedere tutto nella sua vita. Egli la sposa per salvarla dalla miseria, ma anche per affermare il proprio potere: la pietà è la forma più raffinata del dominio. Ai suoi occhi lei era così tanto vinta, così abbassata, così annientata, al punto che talvolta mi capitava di tormentarmi di pietà per lei anche se, nel medesimo istante, l'idea del suo abbassamento mi piaceva in una maniera del tutto particolare. Era l'idea della nostra disuguaglianza che mi piaceva. Crede di averle offerto una vita, e invece le ha tolto la libertà. Ogni suo gesto d'amore è un atto di controllo, ogni parola di affetto nasconde il bisogno di essere riconosciuto come salvatore. Il dramma della Mite nasce esattamente da qui: dalla distanza incolmabile tra il suo silenzio e il suo bisogno di vivere, e la parola dell'uomo, che non sa ascoltare ma solo spiegare.

L'inaffidabilità del narratore in La mite è totale. Dostoevskij non ci dà mai un punto d'appoggio esterno, una voce che confermi o smentisca. Tutto ciò che sappiamo ci arriva da lui e tuttavia, paradossalmente, è attraverso le sue stesse parole che comprendiamo quanto egli si sbagli. Ogni ricordo è carico di incongruenze e soprattutto giustificazioni. È il ritratto dell'uomo che ha perso tutto e cerca di riscrivere la storia per sopravvivere a sé stesso. Ma la lingua, che dovrebbe salvarlo, lo tradisce: nella sua sincerità disperata emerge la colpa. Così il lettore, mentre crede di ascoltare una confessione, assiste in realtà a una nuova forma di menzogna, una menzogna che il narratore stesso non riconosce come tale. E la verità più profonda risale in superficie: non c'è confessione che non sia anche autoinganno, che nessuna parola può coincidere pienamente con il reale.

In questo senso, La mite dialoga in modo sotterraneo con un'altra grande opera del realismo russo. ovvero La sonata a Kreutzer di Tolstoj. Anche lì un uomo parla, e anche lì l'oggetto del racconto è un femminicidio. Ma la differenza sostanziale sta, che se in Tolstoj l'ossessione nasce dal moralismo e dal terrore della sessualità, in Dostoevskij la violenza è più sottile, più metafisica. L'uomo non uccide per gelosia, ma per impotenza spirituale. Non sopporta la libertà dell'altro, l'esistenza di un'anima che non si lascia possedere. In entrambi i capolavori russi, però, il lettore viene ingannato, un po' come si è già visto nella Lolita di Nabokov, il lettore che viene trascinato nella mente del narratore e finisce per credere alla sua versione dei fatti. Dostoevskij, Nabokov e Tolstoj ci mettono alla prova, ci mostrano quanto sia facile "cascarci", quanto il linguaggio stesso sia uno strumento di seduzione e di falsificazione. L'inaffidabilità non è solo un tratto del narratore, ma una condizione universale della coscienza.

Quando la donna si getta dalla finestra, tutto ciò che resta è il monologo dell'uomo. Ma il suo racconto non serve a redimersi, è un cerchio che si chiude su sé stesso. E noi, che lo ascoltiamo, siamo trascinati dentro quella spirale di colpa e di disperazione. L'inaffidabilità diventa così un'esperienza estetica, non è un difetto da smascherare, ma un meccanismo che ci coinvolge e, in un certo senso, ci costringe a dubitare anche della nostra capacità di giudizio.

Com'è terribile la verità sulla terra! Questo essere delizioso, mite, questo cielo era diventato presto il mio tiranno, un tiranno insopportabile e torturatore della mia anima. Calunnierei me stesso, se non lo dicessi! Voi pensate forse che non l'amassi? Vedete, qui è stata l'ironia, la malvagia ironia del destino e della natura! Siamo maledetti, la vita degli uomini in generale è una maledizione!

Alla fine resta solo il silenzio. Il marito siede accanto al corpo della moglie, aspettando che torni, sapendo che non tornerà. Tutta la sua razionalità è crollata, e con essa la sua idea di sé. Il lettore, chiuso dentro quella stanza insieme a lui, non può far altro che ascoltare, e comprendere che la voce dell'uomo non è che il riflesso della nostra stessa condizione. Incapaci di conoscere davvero l'altro, condannati a parlare per colmare il vuoto, a raccontare per non impazzire.