Il primo giorno della mia vita (2023)

Il primo giorno della mia vita (2023) diretto
da Paolo Genovese e presentato al concorso David di Donatello nel 2024 è
l'adattamento cinematografico dell'omonimo romanzo scritto dallo stesso
Genovese e pubblicato nel 2018.
Questa storia unisce quattro vite
all'apparenza diverse, che però si rivelano sorprendentemente simili: una
poliziotta, un motivatore, un ex ginnasta e un ragazzino con problemi
diabetici.
L'incontro di queste vite nasce da un filo
rosso che le accomuna: la sofferenza umana e la ricerca della sua soluzione,
nella morte.
Tuttavia, grazie a un uomo misterioso chiamato
semplicemente "Uomo", le loro vite rimangono sospese per una
settimana, durante la quale avranno la possibilità di riflettere se davvero la
morte rappresenti l'unica via d'uscita dal dolore.
Il personaggio che incarna la figura dell'Uomo
- interpretato da Toni Servillo - mantiene un'identità sconosciuta, mentre il
suo ruolo appare più chiaro: egli incarna la figura dell'angelo, dell'entità
ultraterrena.
Il suo modo di relazionarsi con i personaggi è
particolare: non cerca di spiegare o giustificare le loro scelte, né offre
diagnosi o soluzioni, semplicemente li
accompagna. E in questo accompagnamento silenzioso, privo di paternalismi,
risiede una forma di empatia che va oltre il politically correct.
Non è l'empatia "corretta", quella
che dice 'ti capisco perché è giusto farlo' ma un'empatia più scomoda: quella
che ammette di non capire ma che sceglie comunque di restare, di non voltarsi
dall'altra parte.
Questo film mostra in un modo molto diretto la
cura che, intimamente, tutti vorremmo ricevere: semplicemente essere amati nonostante, nonostante i presunti
errori che possiamo compiere. Genovese ci mostra una strada nuova per stare
accanto a qualcuno che soffre, una strada forse innovativa ma che, in fondo,
tutti ne abbiamo sempre percepito il bisogno.
Anche Il suicidio, tema cardine della
pellicola, viene rappresentato in modo singolare: non come un atto da
nascondere o demonizzare, bensì come una soglia,
una possibilità dell'umano.
Nel film, il suicidio non è né un errore né un
gesto eroico: è una domanda. E come tutte le domande, soprattutto quelle
radicali, merita riflessione, silenzio e ascolto.
Questo tempo in più, donato ai personaggi, non
serve a ricercare una soluzione rapida al dolore, bensì al contrario, offre uno
spazio vuoto, una sfida al nostro tempo che pretende risposte immediate e
formule valide per tutti.
Il politically correct spesso ci impone di
dire la cosa giusta al momento giusto, ma cosa accade se invece ci fermiamo? Se
ci concediamo il lusso di non sapere, di restare nel dubbio, di stare con
quell'emozione da cui vorremmo fuggire?
Il film suggerisce che proprio in questa
sospensione può emergere una nuova
possibilità di senso, una risposta diversa a quella domanda iniziale.
Il film di Genovese pone la possibilità di
morire al centro del discorso senza compiacimento, ma con coraggio.
Perché forse l'arte non serve solo a
tranquillizzarci, ma anche a farci stare un po' meno comodi. A ricordarci che
la vita non è garantita, ma può essere scelta. Nonostante il dolore.
E se non ci fosse nessuna risposta giusta, ma solo un'altra occasione per guardare la vita da fuori? Cosa resta della vita quando l'abbiamo già lasciata? Per iniziare ad essere felici bisogna provare nostalgia per la felicità.