L’arte del non-essere

Avevo sedici anni quando mi scontrai per la prima volta con la dialettica dell'essere e del non essere.
Ad essere sinceri, il primo incontro risaliva alle medie con Amleto e il suo celebre dilemma: "To be or not to be". All'epoca, però, ne avevo colto solo la superficie, intuendo vagamente che dietro quel contrasto si celasse una questione di vita o di morte, ma senza afferrarne la sostanza.
Torniamo però al liceo. Sono al terzo anno del linguistico, seduta nell'ora di filosofia, una materia appena iniziata ma che mi ha già catturato. Il linguaggio filosofico può apparire contorto, quasi ostile, ma se ci si sofferma ad analizzarne le strutture, si svela il senso profondo che sorregge i grandi quesiti esistenziali.
Tra tutti, è il pensiero di Parmenide a colpirmi. Non saprei dire subito perché, eppure il suo "ragionamento per assurdo" mi rimane impresso. Imparo l'enunciato fondamentale, il pilastro della sua tesi:
"L'essere è, e non può in alcun modo non essere. Il non essere non è, e non può in alcun modo essere"
Parmenide, Sulla natura
Inizialmente questa frase mi confonde. Sembra il tipico esercizio retorico amato dai filosofi per complicare la realtà. Eppure, studiandolo, ne capisco la logica ferrea: Parmenide solidifica la sua tesi invalidando l'opposto, riducendolo all'assurdo. Se qualcosa è, non può non essere. Ed è proprio qui, ragionando su questa rigidità logica, che oggi vedo un parallelo inaspettato con la nostra società moderna per quanto riguarda la questione dell'identità. Se per Parmenide il "non essere" è impensabile e indicibile, per l'essere umano contemporaneo sembra diventare, paradossalmente, uno strumento necessario per definirsi. Spesso, per validare il nostro senso di "essere", cadiamo nella trappola di definire ciò che non siamo. Costruiamo la nostra identità per sottrazione e opposizione: io sono perché non sono come loro. In questo meccanismo, l'Altro diventa il "non essere" necessario a confermare la mia esistenza. Discriminare, tracciare un confine netto tra "noi" e "loro", diventa un tentativo disperato di applicare la logica di Parmenide all'identità sociale: per affermare che io "sono" e che la mia identità è vera e solida, ho bisogno di relegare l'altro in una zona d'ombra, di negargli valore, di renderlo un "non essere" rispetto al mio mondo.
Basta guardarsi intorno per vedere questa logica in azione. Pensiamo alla figura del migrante o del senzatetto. Spesso, camminando per strada, lo sguardo della società li attraversa come se fossero trasparenti : non vengono percepiti come individui portatori di una storia, ma come "non-cittadini", "non-residenti", insomma "non-noi". Per mantenere intatta la sicurezza della nostra identità sociale e sentirci parte di qualcosa, abbiamo quasi bisogno di confinare loro nel "non essere" parmenideo per non dover affrontare la complessità della loro esistenza.
Tuttavia, applicare la logica binaria di Parmenide alla vita umana non è sufficiente per parlare di una questione così complessa come quella identitaria. Se l'essere e quindi la sua essenza fossero effettivamente immobili e unici, dove collochiamo chi vive tra due mondi? Chi è cresciuto in una cultura diversa da quella dei genitori, chi la sua cultura e il suo paese di origine non li ha mai conosciuti, chi invece si è ritrovato a vivere in un posto diverso, lontano. Queste persone portano dentro di sé un'identità che non è monolitica, ma fluida poiché arricchita da più sfumature che si sovrappongono.
La logica rigida dell'essere o non essere non é applicabile a loro, che non sono totalmente "di qui", ma non sono più nemmeno totalmente "di lì". Sono la dimostrazione che l'identità non è un recinto chiuso, come voleva Parmenide, ma un ponte che si costruisce man mano capace di unire realtà distanti ma coesistenti, seppur talvolta contrastanti, in una sola essenza.
Forse, allora, la lezione che quella ragazza di sedici anni e la società devono imparare non è tanto accettare il dogma di Parmenide, quanto superarlo. Se è vero che "l'essere è", è anche vero che l'identità umana non è un blocco solido ed immutabile, ma uno strumento plastico capace di trasformarsi per inglobare ciò che lo compone e lo attraversa.
Forse la vera sfida oggi, non è cercare di "essere" escludendo il "non essere", ma imparare ad accogliere tutte le sfumature che stanno nel mezzo.