Sul banco

12.06.2025

Che noia questa scuola. Vivo segregato in un banco da cui non posso fuggire, forse non riesco a fuggire, forse non sono abbastanza forte per farlo.
Lo odio quel banco perché è allo stesso tempo sia la mia nemesi che il mio migliore amico. Quel pezzo di legno è la gabbia mentale in cui mi chiudono che prende vita. E per quanto odi questa cosa, comunque quel pezzo di legno sarà sempre comodo, affettuoso, sicuro. Ogni qualvolta avrò bisogno di confidarmi con qualcuno lui ci sarà, quindi il banco non rappresenta la gabbia mentale ma la mia debolezza: nonostante io odi quella gabbia, scelgo di rimanerci perché è molto più semplice che evadere.

A volte mentre la profe parla, con quella voce soporifera che annoierebbe pure chi è veramente interessato a quello che dice, cado in un sonno profondo.
Non un sonno vero e proprio, in cui ti addormenti sul banco e ti dovranno poi svegliare i compagni, ma un sonno della mente. Sei lì con gli occhi aperti, magari disegni o guardi fuori dalla finestra, e d'un tratto tutto attorno a te perde di significato, si appanna, come se l'inquadratura si spostasse in primo piano su di me e tutto il resto facesse da sfondo. I pensieri fluiscono, le voci si abbassano come se il tuo cervello selezionasse quello che gli interessa sentire, e ovviamente i tuoi pensieri sono molto più interessanti della cantilenante voce della professoressa. E sogno. Sogno di alzarmi di scatto urlando "basta!" e con un violento gesto di pura libertà, prendo prepotentemente il tanto odiato banco e lo scaravento contro il muro che separa la f38 dalla f37, i compagni si alzano e tra applausi, fischi, urla e altri banchi volanti scoppia il caos.
Ma no, rimango qua, inchiodato ad un asse di legno come cristo sulla croce; i voti taglienti di zootecnia mi forano il torace ed io rimango zitto, agonizzante! ma zitto. Il resto dei professori, con le loro mediocri lezioni, non placano la mia sete di conoscenza, vorrei acqua e mi danno aceto. Allora prego il cielo di perdonarli perché infondo non sanno quello che fanno.
Mi giro prima a destra poi a sinistra, affianco a me stanno due ladroni, anche loro fissi al banco come me; si lamentano, soffrono ed io li osservo silenziosamente. Col tempo ho capito una cosa che non vorrei ancora rivelargli, questo lungo calvario non porta da nessuna parte. Non c'è un dopo. Non c'è di meglio.