The Son

17.03.2025

Un film che tratta un tema difficile, ma armato di grandi attori pronti a dare la loro migliore interpretazione.


La depressione è difficile da rappresentare in un film, perché la si può capire solo vivendola in prima persona. Gli spettatori possono solo vedere una serie di immagini, non possono entrare nella mente del personaggio per comprenderlo meglio. Anche con registi e attori talentuosi, spesso la depressione viene scambiata per svogliatezza o, peggio, per una “fase di passaggio degli adolescenti”.
Non siamo gli unici ad avere difficoltà nel comprendere questa malattia: anche le persone che vivono a stretto contatto con chi soffre di depressione fanno altrettanta fatica. “The Son” parla proprio di questo, non tanto della patologia in sé, ma di come le persone reagiscono a chi ne soffre.

Il protagonista è un padre, Peter Miller, che, nonostante sia pronto per cominciare una nuova vita in politica, d’un tratto deve occuparsi del figlio depresso. Lo spettatore ci arriva subito che il ragazzo ha bisogno d’aiuto da parte di professionisti, ma il padre fatica ad ammetterlo.

La bellezza del film sta nel realismo dei personaggi. Due genitori che reagiscono alla malattia del figlio come farebbero due persone reali.
La madre Kate è esausta, si sente come se il figlio lo avesse già perso e tiene per sé tutta la tristezza. Affida tutto a Peter, pensando che prendere le distanze dal figlio sia la cosa migliore.
Si dà la colpa per essere stata una pessima madre, una pessima moglie, è sempre colpa sua e il comportamento del figlio è ciò che gli serve per autocommiserarsi.

Il padre, invece, sottovaluta il problema: descrive il comportamento del ragazzo come una “fase passeggera di un adolescente” e pensa di aver risolto tutto facendo vivere il figlio nella sua nuova casa e mandandolo in una nuova scuola. Anche se poi Peter capisce che qualcosa davvero non va, nega comunque la gravità della situazione, mandando il figlio da uno psicologo per qualche seduta settimanale. Si illude che questo basterà a tornare alla normalità.

Peter, a differenza della madre, cerca di prendere in mano la situazione per dimostrare a sé stesso di essere un buon genitore. Suo padre Anthony era un uomo freddo, distaccato e pressante e Peter non vuole ripetere questi atteggiamenti con suo figlio, vuole essere una sorta di eroe.
Come era prevedibile, senza l’aiuto di un professionista qualcosa va storto, non ci sono miglioramenti e Peter si arrabbia col figlio, sbraitando le stesse cose che diceva suo padre. Si rende conto di essere diventato come Anthony, la figura che voleva evitare a tutti i costi.
Invece di accettare la malattia del figlio, lo assilla in ogni modo senza però dargli quello che gli serve davvero, la terapia.
Fino alla fine del film Peter si dà la colpa per essere stato un pessimo padre e, come Kate, non riesce a farsene una ragione. Si è fatto carico della situazione e il peso di questa responsabilità lo ha sfinito, accecandolo dalla realtà dei fatti: la depressione del figlio è fuori dalla portata di un genitore, non si può curare da un giorno all’altro e non è causata dalla mamma o dal papà.


La depressione è una patologia che non ha responsabili. Non si può incolpare una persona per la depressione di qualcun altro. Chi soffre di questa patologia è l’unico che può affrontarla e vincerla, con l’aiuto di figure professionali.
I genitori del ragazzo ovviamente si sentono responsabili e, cercando di aiutare il figlio, non fanno altro che peggiorare questo senso di responsabilità. L’affetto che provano li acceca e non permette loro di ragionare lucidamente, anche davanti al tentativo di suicidio del figlio.

La cosa più difficile che devono fare è lasciare andare, mollare la presa e affidare ai medici il loro bambino. Lo chiamo così perché per tutto il film viene ricordata la vacanza in Corsica dove il piccolo ha imparato a nuotare ed è così che Peter e Kate vedono loro figlio, sarà sempre il loro bambino.

Il regista non vuole parlarci di cosa è la depressione, vuole dirci che, anche se non la capiamo, è qualcosa di grave e deve essere presa seriamente, accettando con coraggio che una persona depressa può essere aiutata solo da dei professionisti. Noi possiamo solo starle vicino, senza prenderci la responsabilità di questa malattia.

 
Non l’abbiamo causata noi e, se è difficile anche solo da capire, figuriamoci se possiamo curarla.

Valutazione:

★★★★★★★★★☆

di Andrea Brevi