un viaggio

22.07.2025

La mia prima impressione di Betlemme è stata: sporca e puzza di piscio di gatto.
Impossibile per me comprendere come una città tanto vecchia, una città tanto piena di storia, potesse venire trascurata come il peggior quartiere della peggiore città.
Ho cominciato a camminare per le strade piene di rifiuti di questa viva città e in breve tempo a catturare il mio sguardo non erano più i bordi delle strade colmi di sacchi e bidoni, ma i palazzi, le case e gli edifici, fatti di mattoni color sabbia, che alla luce del sole brillavano di un bianco splendente. E poi le persone, quasi mai sorridenti, ma sempre cordiali, sempre gentili, sempre pronte a offrirti un posto alla loro tavola se pensavano ne avessi bisogno. Sempre in mezzo alle strade, con i loro carretti unti e bisunti, dove ho bevuto le più buone spremute di frutta fresca della mia vita. Sempre con i loro bambini, che correvano liberi nei meandri delle viuzze che al buio mi ricordavano le pareti di un labirinto da cui forse non cerchi una via d'uscita.
Le strade di Betlemme trasudavano di Storia, di vita, e nella mia mente niente era cambiato da quei duemila anni in cui una ragazzina incinta segnò il nostro percorso, se non forse che invece degli asini adesso ci sono macchine che sfrecciano alla velocità delle comete e che rischiano di investirti ad ogni incrocio.
Mi sentivo già a casa, in quell'appartamento di suore condiviso con compagni di viaggio con cui ho parlato seduta per terra, sotto il cielo di una terra che non ha dimenticato le stelle.
Poi sono uscita da Betlemme, e non sono stata più a casa.
La realtà ha cominciato ad insinuarsi nei miei sogni e la guerra nella mia mente.
I soldati, i controlli, il trattamento "speciale" per noi miseri turisti, il muro e i cartelli, quei maledetti cartelli rossi, bianchi, neri, a cui mi ritrovo a pensare ancora oggi quando cammino per strada.
Cartelli che parlavano di pericolo, di un nemico terribile che era meglio non avvicinare, ma quel nemico non erano le stesse persone che avevano aperto le loro porte per me? Che mi avevano invitato a dividere il loro cibo? Che mi avevano donato i loro ricordi, le loro emozioni?
La verità è che non c'è mai stato nessun nemico, nessun pericolo, se non che il bisogno si è tramutato in ingordigia, e un popolo sperduto a cui è stata donata una casa ha deciso che la terra non era abbastanza.
Mi chiedo spesso da dove venga l'assenza di compassione del popolo israeliano, come possano i sopravvissuti di un genocidio aver perso tutta la loro umanità, ma forse la risposta giace là dove giace la domanda, ed è scritta in una lingua che solo Dio può comprendere.
Le mie risposte le ho trovate nel deserto, o meglio, nel deserto ho trovato le mie domande, domande che ho rivolto alla sabbia, che ho rivolto ai ruscelli, che ho rivolto alle stelle, domande a cui il Wadi Qelt non ha dato risposta, ma nel caldo, nella fatica e nel sudore ho trovato la pace, una pace temporanea, sarà durata un istante, ma un istante bellissimo dilatato nel tempo che conservo nel cuore con amara nostalgia.
A condurci nel deserto è stato un padre con suo figlio, ironico no?
Un uomo sorridente che non ha mai mostrato la fatica, con un figlio ritroso e indipendente, che camminava il doppio più veloce di noi, con una leggerezza propria di chi abita il deserto, quel bambino aveva tanto dolore negli occhi, ma non quando guardava suo padre, con pupille colme di amore.
A farci incontrare è stato un omicidio.
Dei soldati israeliani erano entrati nel campo e avevano ucciso il cugino di quella che doveva essere la nostra guida, un ragazzo giovane, che amo immaginare alto, con i capelli riccioli scuri, occhi fermi e uno spirito pieno di rabbia e speranza.
Campo, fa strano dire campo, come si può vivere in un campo profughi nel proprio paese, come si può essere rifugiati di guerra nella propria terra, come si può morire prigionieri sotto un cielo che non ha confini?
Eppure molti sono morti, sacrificati sull'altare dei potenti, a cui poco importa delle "vittime collaterali".
A questo punto non so bene quale sia stato il mio viaggio, chissà quante cose non ho potuto vedere e non ho potuto capire, ma quello che so è che sono stata testimone della forza di un popolo che ha scelto di non fuggire, di non abbandonare la speranza, che affronta la guerra giorno per giorno da quasi ottant'anni con la fiducia e con la fede che un giorno, potranno essere di nuovo liberi, che un giorno potranno prendere le chiavi di rame appese sopra la porta e tornare nelle loro case, in una Palestina nuovamente loro.


di  Rebecca