Un'altra chance
Sono circa le 22 e mentre distribuisco the e caffé, sento arrivare dal cortile una chitarra che suona sulle note di Redemption Song.
Da lontano vedo che intorno al tavolo fuori si è creato un gruppetto eterogeneo di persone, che canta insieme. Man mano, altri timidi individui si avvicinano incuriositi e si fermano ad ascoltare. Alcuni di loro non capiscono l'italiano, eppure restano in ascolto incuriositi.
Per un momento, non sembra nemmeno di essere lì, ma in una notte d'estate in spiaggia davanti ad un falò, oppure ad una serata tra amici.
Mi unisco anche io a questo coro.
Le parole escono un po' storpiate, talvolta non precise, la tonalità non é forse quella giusta, eppure tutti cantano all'unisono. Sembra quasi che le differenze culturali e le barriere linguistiche si azzerino, tutti in quel momento comunicano utilizzando lo stesso linguaggio, che è quello delle emozioni. Il passato di ciascuno, la propria situazione, gli errori ed i rimpianti si mescolano ai sogni, i desideri e le speranze. Ognuno canta pensando a ciò che vuole e che si porta dentro, rendendosi conto che poi il suo bagaglio, seppur diverso, non è poi meno pesante da portare di quello degli altri. Tutti sentono dentro di loro che pur non conoscendosi davvero, sono legati come da un filo invisibile ma forte, che lega in qualche modo le loro storie e le fa risuonare sulla stessa melodia, a ritmo di tamburo.
Quando si arriva al ritornello, il coro di voci si fa più intenso, le parole della canzone diventano di una richiesta, quasi un'invocazione:
"Won't you help to sing
These songs of freedom?
'Cause all I ever had
Redemption songs"
E' il grido di speranza di chi cerca disperatamente il suo posto nel mondo, di chi scappa da qualcosa o da se stesso, di chi cerca di ricominciare da capo in un posto diverso e si aggrappa con forza a quel poco che ha e che gli rimane di lui, dei suoi affetti o delle sue origini. Sono persone all'apparenza forti e con una corazza dura, ma anche fragili dentro, che si portano con sé delle ferite forse mai guarite, coperte dai tanti strati di vestiti e di orgoglio. Alcuni a volte pian piano si spogliano, lasciano vedere una parte del loro dolore, condividono qualcosa di sé' forse anche per non dimenticarsi, per non scordare del tutto chi erano o per cercare così di ritrovarsi di nuovo.
Rivedono pezzi di loro o della loro vita passata nelle persone che incontrano, ritrovano frammenti di normalità e di gentilezza che non hanno da tempo, un collegamento con il mondo che si trova al di là delle pensiline della stazione, al di là di quella porzione di mondo nella quale, volenti o nolenti, sono bloccati. Uscirne a volte fa più paura che esserci dentro, perchè c'è un qualcosa di confortante e familiare nel dolore, nella propria marginalità : permette di vedere la vita da spettatore, appoggiandosi sul fatto di non aver possibilità di fare altrimenti, di non avere i mezzi per riprendere le redini e diventare l'artefice piuttosto che colui che subisce.
Quelli che mettono un piede fuori dalle sabbie mobili, lo fanno piano piano, a volte non escono mai del tutto, a volte invece qualcuno ce la fa a riemergere.
Tutti, comunque, sono in cerca della loro rivincita, di una seconda possibilità per chiudere i conti in sospeso con la vita e per provare agli altri o a se stessi che sono ancora lì per un motivo, che qualcosa si è salvato, che forse la loro vita non è stata tutta persa.
Persone che, come tante altre, si fanno strada tra i loro demoni e le difficoltà, trovando il modo di vedere il lato positivo anche nelle giornate più scure. Hanno il cuore più duro ma grande e tantissime storie da raccontare, basta solo aver voglia di ascoltare, avere un po' di pazienza e saper vedere al di là.
