Warfare - Tempo di Guerra

Usare la guerra per distruggere la guerra
Partiamo dall'inizio, da prima che inizi la proiezione in sala. Garland vuole raccontare qualcosa e vuole farlo bene. Gli è piaciuto parlare di guerra in Civil War e ora vuole puntare più in alto.
Si affianca quindi a un soldato vero e raccoglie le testimonianze del suo squadrone, imparando il più possibile su gergo militare, tattiche d’azione, termini tecnici, manovre aeree e altro ancora, il tutto per proporre al pubblico un film autentico.
Non a caso si nota subito l’attenzione ai dettagli: i soldati, quando sparano, hanno buona mira; non ci sono momenti morti, c’è sempre qualcosa da comunicare; le armi sono rumorose... davvero molto rumorose.
Nel realismo della vicenda si perde la struttura narrativa classica, quella presente in qualsiasi storia inventata. Qui no: si racconta un episodio di guerra realmente accaduto e la realtà non segue gli stessi schemi del cinema. Ma questo va bene, assolutamente; d’altronde Warfare non è un film di guerra, ma SULLA guerra.
E qui la pellicola gioca le sue carte migliori: invece di proporci una trama intrisa di critiche sulla brutalità della guerra, vuole mostrarci una missione militare autentica, e non avremo bisogno di aiuti per comprendere a quale orrore stiamo assistendo... non serve una metafora davanti alla cruda realtà del campo di battaglia.
Si può dire che la guerra vera ha distrutto la guerra concettuale (quella che immaginiamo noi, lontani dalla battaglia e abituati al cinema americano).

In un mondo senza eroi
Nel realismo di questa pellicola spicca la caratteristica che più mi ha spiazzato: manca l’eroe, il Capitan America della situazione che si fa coraggio e affronta il nemico a muso duro, vincendo. In Warfare no: i personaggi sono tutti uguali, tutti umani. Hanno paura, attacchi d’ansia, provano dolore. I feriti urlano... e tanto. Alle urla si alternano i rantoli strozzati dei soldati che cercano di resistere al dolore.
Da spettatore capisci che sono in pericolo, un pericolo reale che dovranno affrontare da soli. Vuoi che quei ragazzi riescano a tornare a casa, capisci che non sono pronti a tutto questo, non se lo aspettavano perché, in fondo, chi potrebbe mai aspettarsi un orrore simile?
Non ci sono mosse da protagonista in cui si esce allo scoperto sparando all’impazzata, perché nella realtà se lo fai, muori. Bisogna restare calmi e ragionare sulla prossima mossa, ma come si può essere lucidi dopo che una bomba ti esplode in faccia?
Perché molti non lo sanno, ma nessuno — dico proprio NESSUNO — (a differenza dei personaggi dei film) riesce a rialzarsi e sparare al nemico dopo soli tre secondi da un’esplosione ravvicinata. Nessuno.
E rialzarsi stringendo i denti nonostante le gambe devastate dai detriti di metallo? Nemmeno quello si può fare.
Il regista ce lo fa capire bene con una lunghissima scena post-esplosione in cui tutti i suoni sono ovattati e accompagnati da un fischio costante, che non permette ai soldati (e non ci permette) di capire cosa stia accadendo o di comunicare tra loro. Un sonoro che porta al limite della crisi isterica.
Anche qui, non serve un genio per capire che sì, un’esplosione effettivamente ti lascia davvero stordito.

Povero finale, incompreso da tutti...
Finita la parte di confusione più totale, il film si chiude con la stessa semplicità con cui era iniziato. In un attimo lasciamo tutti quei soldati e torna la pace. Il silenzio dopo gli spari è una benedizione.
Molto forte è il contrasto tra i soldati doloranti e, subito dopo, gli abitanti della casa/postazione. Anche i terroristi escono dai nascondigli e si guardano intorno per capire se è davvero tutto finito. Sembra una secchiata d’acqua fredda che ci riporta alla realtà dei fatti: gli intrusi, lì, erano gli americani; abbiamo tifato per loro solo perché si trovavano in una posizione di debolezza.
Nessuna scena post-credit, nessun collegamento con altri eventi. Nulla. L’episodio è finito, andate a casa. Sembra surreale che sia terminato tutto di colpo. Ed è proprio questa la sua forza: il film dura solo 90 minuti e, una volta concluso ciò che ha da dire, finisce.
Attenzione che non è comune di questi giorni: avere il coraggio di raccontare un episodio all’apparenza così insignificante e piccolo è un atto d’amore verso il cinema vero, quello che non ricerca sempre e solo i blockbuster.
Ora, però, parliamo del finale vero, quello criticato da molti perché frainteso. Mi spiego.
Dopo l’ultima scena compare la scritta “Per Elliot”, uno dei soldati rimasto gravemente ferito e a cui il film è dedicato.
Seguono alcune riprese del dietro le quinte che mostrano i veterani mentre spiegano agli attori e al regista come comportarsi realisticamente in varie scene.
Poi un montaggio di fotografie dei soldati accanto agli attori che li hanno interpretati, con molti volti sfocati per proteggere l’identità.
Il tutto si conclude con il ringraziamento: “Thank you to Bravo Company, 1-26 Infantry ‘Bushmasters’ for always answering the call.”
Queste scene hanno lasciato confusi alcuni spettatori, poiché il film mantiene un tono molto neutrale sulle operazioni militari americane in Iraq — né pro né contro (l’intento è demonizzare il concetto stesso di guerra, non un episodio specifico) — mentre il finale può sembrare una dedica patriottica da tipico film che esalta i valori militari.
Chiariamo alcune cose per evitare ulteriore confusione:
il regista può dedicare il film a chi vuole, veterano di guerra o meno;
le persone non sono obbligate a mostrare il proprio volto, e per questo alcuni sono sfocati: è una questione di privacy, non di onore militare;
il ringraziamento finale non è rivolto alla squadra protagonista del film, ma alla squadra di soccorso che li ha portati in salvo... praticamente hanno ringraziato un’ambulanza.
Sotto questa luce, vi sembra ancora contraddittorio con il resto del film?

Devo ammettere che è difficile dare una valutazione a Warfare, perché non segue le regole dei soliti film. È più paragonabile a un biopic, ma allo stesso tempo rientra nel filone dei tanti film di guerra. Inoltre, non riesco a trovargli difetti che non siano soggettivi.
Un esempio può essere la mancanza di contesto: il film non dice esplicitamente dove sia ambientato né quale sia la missione dei Seals. Ma non è un difetto in senso assoluto, perché alcuni preferirebbero più spiegazioni, mentre per altri va benissimo così: si può capire tutto con pochi passaggi logici (e, anzi, se non si coglie il contesto tanto meglio, perché ciò che conta è capire che la guerra è orribile, indipendentemente da quale guerra si stia parlando).
Un altro esempio è la confusione delle scene, pensata per trasmettere lo stato mentale in cui si trovano i soldati. Per qualcuno può risultare eccessiva al punto da rendere difficile distinguere i personaggi tra loro. Anche qui si tratta di un aspetto soggettivo: può piacere l’immersione totale nel caos per entrare in sintonia con i protagonisti, oppure no.
Infine, il messaggio apparentemente contraddittorio del film a causa delle scene finali non è un problema di per sé, come chiarito nel paragrafo precedente.
Dunque, che dire? Vabbé, lo faccio. Bravo Garland, ottimo film.
Valutazione:
10 / 10
- Bello il breve momento finale dedicato agli iracheni del posto, un contrasto intelligente posizionato al momento giusto
- La performance degli attori è spettacolare (consiglio: informatevi sulla loro preparazione)
di Andrea Brevi